Lana Del Rey è certamente un angelo alla nostra tavola e vi ritorna dopo una lunga assenza, perdonando molti di noi di non averla capita tanti anni, quando, ospite in tv da Daria Bignardi fu dapprima esaltata per la bellezza e le qualità vocali e poi criticata per quella sua supposta propensione verso i “cattivi ragazzi”, fungendo così da pessimo esempio per le giovani del nostro paese. Erano i tempi dei suoi due primi album, Born to die e il suo quasi immediato seguito Paradise, con canzoni dal taglio pop che ti rimanevano facilmente della testa, come la title track, cioè la canzone che da il titolo all’album, come Blue jeans, Video games e quella Summertime sadness che ormai è una sorta di inno. Da quei due album, eccessivamente commerciali nella produzione, dato che Lana non aveva probabilmente ancora il potere contrattuale di avere l’ultima parola sulle proprie registrazioni sono passati più di dieci anni e un’altra decina di albums, molto meno pop e più ricchi di ballate, con meno cattivi ragazzi e però sempre nei testi attenti a tutte le sfaccettature delle relazioni umane, in cima a tutte quelle amorose. Il repertorio di Del Rey è vasto e senza debolezze, si possono avere uno o più dischi preferiti tra i suoi, ma secondo me la qualità è sempre alta e dovendone pescare uno dalla sua discografia per ascoltarlo al momento, si può tranquillamente estrarre a caso, si finisce sempre bene. Negli ultimi tempi poi Lana Del Rey ha iniziato a percorrere nuove strade compositive, nel suo ultimo disco, dal lunghissimo titolo Did you know that there’s a tunnel under Ocean blvd (sapevi che c'è un tunnel sotto l’Ocean boulevard?) si trovano canzoni che vanno oltre la ballata o che portano le sue canzoni verso stili differenti, anche se alla fine è riconoscibile, bellissime come sempre quando accade, le sue collaborazioni, in questo caso con Jon Batiste e il suo pianoforte jazz e stupenda la canzone Margaret cantata con il suo produttore (lo stesso di Taylor Swift) Bleachers. Ma di tutto questo, o meglio di quasi tutto questo, al concerto di Milano, non c’è quasi traccia (secondo me) perché Lana Del Rey non sta portando in tour le sue canzoni o il suo ultimo album. Lana Del Rey sta portando in giro per il mondo se stessa, o un’idea di se stessa, una rappresentazione angelica del suo interiore e una rappresentazione esteriore del suo amore per le fans e i fans adoranti e del suo bisogno di essere ricambiata, amata. La scaletta è dominata dai primi famosissimi brani, tutto il resto viene elargito in pillole e alcune canzoni sono quasi un medley e sfumano l’una nell’altra. La coreografia ci presenta l’interno di quello che potrebbe essere il parco di una villa da fiaba e Lana vi si muove come una creatura immaginata dallo Shakespeare più romantico. Tutto è molto coreografico e coreografato, quindi è probabile che sia impossibile fare variazioni di luogo in luogo, penso lo spettacolo sia stato identico in ogni data del tour. La band sul palco, la cui presenza è frontale a tratti e nascosta in altri, è eccezionale, salta all’orecchio che sono musicisti bravissimi, così come le coriste. Tutto il suono prodotto da band e coriste è funzionale a sorreggere la voce di Lana, che di voce non ne ha molta. Lana Del Rey a livello di canto da certamente il meglio in studio di registrazione, dal vivo non appare in grado di esprimere la bellezza delle sue canzoni senza un aiuto, uno stratagemma che la faccia arrivare al traguardo. Il concerto dura circa 90 minuti e lascia un po’ l’amaro in bocca per tutti i pezzi non eseguiti (io personalmente avrei voluto una scaletta molto diversa) ma lascia anche estasiati per quello che si è visto e ascoltato, al di la della scelta delle canzoni. Quasi tutti i brani vedono una coreografia danzata da un corpo di ballo all girls che sembra non avere peso e sembra esser fatto della materia di cui sono fatti i sogni, giusto per tirare nuovamente in ballo Shakespeare, Lana si muove tra queste meravigliose ballerine, cantando senza mai alzare la voce (che infatti ogni tanto scompare) e senza versare una goccia di sudore, probabilmente né lei né le ballerine toccano il pavimento del palco, essendo appunto creature di sogno. Poco prima della fine del concerto Lana scompare con tutto il cast, sul palco rimane solo il pianista e appare un ologramma, è Lana in un vestito argentato e canta una canzone (al momento di scrivere non ricordo quale, ma avete già capito che non è importante), il tutto mi pare un bel sistema per prender fiato, cambiarsi abito e uscire per un’ultima sezione di concerto. Infatti escono di nuovo, Lana con lo stesso vestito dell’ologramma ma per cantare giusto un altro paio di pezzi, forse tre e poi salutare in modo sentito ma abbastanza rapido il pubblico e sparire, lasciando il pubblico, quasi settantamila all’ippodromo La Maura di Milano, un poco interdetto e immobile per qualche minuto, poi si accendono le luci e inizia la lenta e comunque soddisfatta processione verso parcheggi e fermate della metropolitana. Note a margine, si confermano un paio di “tendenze” che ho iniziato a notare ai concerti negli ultimi anni (non vado a molti concerti, ma conversazioni con amiche e amici mi confermano le sensazioni), cioè una forte presenza di stranieri ai grossi concerti italiani e una grande presenza di famiglie, la mamma con la figlia, il nonno con la nipote ecc ecc. Cose di cui sono stato pioniere visto che nel 1987 mia madre venne con me al concerto di Springsteen a Torino. Ora aspettiamo a Settembre il nuovo disco di Lana, che a quanto pare sarà influenzato dalla musica country e si intitolerà Lasso e magari un nuovo tour dove al centro della situazione siano le canzoni e non quello splendido angelo di nome Lana Del Rey
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